Con letture di Jacopo Rampini.
Introduce Danco Singer.
Ero teologo, e quindi ero anche giurista. Del resto non è forse vero che teologia e giurisprudenza sono la stessa cosa? Entrambe queste discipline si sono assunte il compito, invero arduo, di disciplinare ciò che impalpabile, incorporale e sfuggente per definizione: la teologia la divinità, il diritto l’equità.
Benché la mia mente fosse sempre impegnata in pensieri giuridici e divini, nessun dio, tranne una volta, e lo racconterò più avanti, è mai venuto direttamente a ispirarmi, per dettarmi le regole di un rituale o qualche legge da promulgare. Tutto ciò che so degli dei – e credetemi, specialmente adesso so davvero tante cose – l’ho imparato da solo, pensando e riflettendo, usando la mia ragione e la mia immaginazione.
Secondo i Greci sono stati i loro poeti, Esiodo ed Omero, che hanno fatto conoscere agli uomini gli epiteti che toccano a ciascuna divinità, dividendo i loro onori e le loro competenze, indicando a tutti quali sono le loro forme. Ebbene quello che in Grecia fu fatto da Omero ed Esiodo, a Roma l’ho fatto io, Numa Pompilio.
Quella volta, in quel luogo deserto, non si erano trovati di fronte un dio, Iuppiter, e un re, Numa, ma due giuristi che giocavano a chi la sapeva più lunga. Ho vinto e Iuppiter non si è arrabbiato, anzi ha riso, congratulandosi con me. Perché anche Iuppiter è romano e sa apprezzare le sottigliezze del discorso.
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