“Il Condor” è un testo sul ciclismo, vissuto dal gregario. Il gregario, in gergo sportivo, è quello addetto all’aiuto del Capitano. Deve soccorrerlo nei momenti di crisi, tirargli la volata. In poche parole deve immolarsi per la gloria di un altro. E’ pagato per questo. Ma chi, in vita sua, non ha mai pensato di vincere almeno una volta? Chi non ha mai sognato di arrivare sul traguardo per primo? Non è raro che sconosciuti gregari per anni si trasformino improvvisamente in campioni. Quasi sempre sono aiuti chimici che gli consentono di superare il fatidico limite della mediocrità e la cronaca sportiva, e non solo, di questi anni ce lo ricorda giornalmente. E quando “il fine giustifica i mezzi”, spesso le ipotesi di gloria si trasformano in tragedia. Oltre che nel ciclismo, questo avviene anche nella vita e, forse, mai come oggi giorno, in una società come la nostra, competitiva e senza scrupoli, dove solo i vincenti, a qualsiasi costo, sembra abbiano diritto di cittadinanza. E’ un mondo questo che non prevede concettualmente i deboli, anche se ovviamente non ne può fare a meno. “Il Condor” forse solo come pretesto ciclistico per parlare d’altro, ma anche per ricordare odori dimenticati d’infanzia, profumi d’arance spagnole, visioni ad alta quota di una povertà sconosciuta alle nostre rassicuranti latitudini. Resta il sogno del gregario: un desiderio talmente umano da non poter non sollecitare in chi lo ascolta, in uno sfogo ironicamente tragico, un istinto di solidarietà.