Un documentario di Tommaso Valente e Paolo Maoret
Prodotto da Instant Documentary, CISP, Nexus ER, Rete Tifariti.
In collaborazione con la Regione Emilia-Romagna
distribuito da Instant Documentary
Delegata di produzione Laura Luppi
Fotografia Tommaso Valente
Suono Abdala Bani (presa diretta) – Giovanni Frezza (postproduzione)
Aiuto regia Hamudi Farayi
Montaggio Mattia Biancucci
Musiche Eugenio Valente
Delegata di distribuzione Emanuela Torregrossa
Protagonisti:
Fiorenzo Crestani
Giulia Olmi
Claudio Cantù
Sara Di Lello
Racconti di solidarietà e cooperazione con il popolo saharawi, in bilico tra la guerra e il deserto, alla ricerca di un’indipendenza negata.
Un filo di sabbia unisce i saharawi al pianeta terra. Su questo filo cammina, in bilico, il futuro di un popolo dal destino sospeso tra la guerra e il deserto, alla ricerca di un’indipendenza negata. Il documentario racconta come, nel deserto dell’hammada, il più duro al mondo, ogni giorno si lotta per il presente nella speranza di un futuro che non arriva mai. Con gli aiuti esterni della cooperazione, si estrae l’acqua dal deserto per fare degli orti, si fanno delle vere e proprie startup per l’imprenditoria femminile, si sostengono programmi educativi, alimentari, progetti nelle scuole, con i disabili, si organizza l’accoglienza di nuovi profughi in arrivo dai territori di guerra nel Sahara Occidentale ma tutto intorno sembra un pianeta alieno, continuamente alla ricerca di mettersi in contatto con il resto del mondo.
“Quando ho cominciato a pensare a questo documentario desideravo poter restituire il peso dell’alienazione a cui il popolo saharawi è costretto da circa 50 anni e, allo stesso tempo, la capacità che ha di reagire alla sua segregazione. La relazione tra essere umani e ambiente per me è un elemento fondamentale per comprendere le dinamiche della realtà. Per ambiente, ovviamente, non intendo solamente quello naturale ma anche quello culturale. In questo caso, quindi, la condizione di rifugiati, la singolarità, l’unicità della stessa, anche rispetto ad altri rifugiati, non
fanno che rendere molto più interessante la specifica condizione del popolo saharawi. Ho cercato di fare un film politico, ma non ideologico, che possa trasmettere nella maniera più diretta le caratteristiche elementari della vita nei campi. Il caldo, il rumore, il silenzio, le difficoltà di comprensione e comunicazione, le relazioni dei cooperanti stranieri con gli abitanti di questo deserto assurdo, il più duro al mondo, i limiti, la forza, la tenacia, le possibili speranze, il paradosso della guerra, la disperazione, la dignità. La macchina a mano, nella la ricerca della relazione tra la figura umana e il paesaggio, è la cifra che ho prediletto da un punto di vista linguistico, così come i tempi di montaggio lunghi e il
tentativo di restituire il più possibile lo scorrere degli eventi, senza costruire troppo da un punto di vista filmico. La costruzione maggiore, probabilmente, è nella struttura corale del documentario più che all’interno delle singole scene. Le scelte musicali sono state ponderate sulla necessità di mediare tra la speranza e la frustrazione, tra la melodia e la dissonanza, a seconda delle situazioni. L’utilizzo più “pop” del piano o di sonorità mediterranee si avvicendano ad altri momenti dove la chitarra elettrica restituisce maggiore inquietudine alla ricerca di un approccio espressivo denotativo. Vorrei quindi che arrivassero, allo spettatore, sia la durezza dell’ambiente che la carica emozionale dei testimoni, per superare la semplice esposizione dei fatti e stimolare un contatto più umano con la storia e i protagonisti.
Il programma potrebbe subire variazioni