Trasgredendo agli ordini ricevuti, il principe di Homburg lancia la sua cavalleria in battaglia e, nonostante la vittoria conseguita, viene condannato a morte. Natalia, innamorata di lui, intercede presso il Grande Elettore il quale, di fronte alle insistenze della ragazza, comunica al principe di volergli offrire la grazia. Il condannato a morte si dimostra però irremovibile volendo rispettare il codice d’onore. Considerato il capolavoro tra le opere di Heinrich Von Kleist, scritto nel 1808, il dramma è diventata la drammaturgia emblematica della dicotomia tra l’obbedienza agli ordini ed il fare ciò che è giusto. L’intento della messinscena e del lavoro con le allieve attrici e gli allievi attori è quello di approfondire questa dicotomia rappresentando il dramma in uno spazio raddoppiato, quindi in due spazi gemelli, tentando di indagare le dimensioni di sogno e realtà presenti nel testo, causati dal sonnambulismo del protagonista, quasi come se non si svegliasse mai. Homburg sogna di essere incoronato, sogna di essere amato, sogna di essere riconosciuto; i suoi non sono dei sogni, ma delle aspettative. Appena tenta di raggiungere questi obiettivi essi si allontanano all’infinito; quindi l’ambizione diventa impossibilità, e di conseguenza fallimento. È così che Homburg rappresenta il ragazzo moderno in quella fase delicata di transizione tra l’adolescenza e la maturità.
“Uffa, che barba! Uffa, che noia! Con questa frase si concludevano gli episodi di Casa Vianello, la sit-com televisiva che vedeva protagonisti Sandra Mondaini e Raimondo Vianello; dopo una giornata condita da episodi rocamboleschi, equivoci, comici litigi, la coppia si augurava la buonanotte con questa frase pronunciata dalla Mondaini, che diventò quasi uno slogan capace di entrare nel gergo degli italiani. Una frase che ormai associamo naturalmente a qualcosa di noioso, ripetitivo; i ragazzi spesso la utilizzano quando vengono chiamati dagli adulti a fare qualcosa che non vorrebbero fare, come ad esempio studiare. Per gli adulti, forse, è invece diventata una sorta di sentenza da applicare alla politica, quando continua a riproporci lo scenario di sempre senza alcuna novità o addirittura speranza. È una frase buffa che ci aiuta a sdrammatizzare, a volte, le miserie della vita, il non-senso del quotidiano.
È possibile che continuare gli studi dopo un triennio di Accademia, prolungarli per altri due anni, potrebbe essere un percorso da liquidare con un perentorio “Uffa, che barba!” Eppure, lo studio ricercato, scelto e voluto, che accresce ulteriormente il nostro bagaglio di conoscenze, può prepararci davvero alla prova del lavoro. Intitolare un biennio “Uffa, che barba!” non vuole essere una provocazione, ma una tematica su cui orientare due anni di studio, confronto e verifiche; due anni dedicati al tema della “barba” declinato in tutte le sue varianti: la noia, certo, ma anche le infinite barbe che popolano i testi teatrali o letterari, le favole, le barbe di personaggi realmente esistiti o quelle dei protagonisti della settima arte. Una frase ironica, quindi, che possa accompagnarci offrendo la possibilità di indagare più linguaggi e più mondi di espressione artistica.”
Antonio Latella
Il programma potrebbe subire variazioni